Cantare è un atto liberatorio

Versetto del mese:

IL SIGNORE è la mia forza e l’oggetto del mio cantico; egli è stato la mia salvezza. Questi è il mio Dio, io lo glorificherò, è il Dio di mio padre, io lo esalterò. (Esodo 15,2)
Con festoso risuonar / e con agile danzar / s’alza verso il gran Signor / grande lode e sommo onor, / verso il nome suo potente. (Innario Cristiano n. 30, Ginevra 1562)

Cantare è un atto liberatorio. Chi vuole cantare deve mettersi in movimento.
Chi canta si alza in piedi, si apre, supera il proprio limite. Per poter cantare
bisogna saper lasciarsi andare. Chi canta non prova più paura o vergogna nel
rivolgersi ad altri mostrando se stesso senza riserve. Quando cantiamo
raccontiamo qualcosa di noi stessi. Chi canta si ricorda del passato e si
rassicura per quanto riguarda il futuro. Cantando ci si commuove e si prega.
Nella Bibbia, la musica e il canto accompagnano non per caso proprio l’inizio
e la fine della storia della liberazione. L’antico inno che Mosè e gli Israeliti
intonarono esultanti dopo l’esperienza della sconfitta dell’esercito del Faraone
è lo stesso inno che sarà ancora cantato da parte dei redenti che hanno
“ottenuto vittoria sulla bestia e sulla sua immagine” (Apocalisse 15,2). E il
racconto biblico ci ricorda le donne che diedero, anche teologicamente
parlando, la giusta intonazione e il giusto ritmo al canto di liberazione del
popolo di Dio – come Mirjam o Debora. Ma quale è, in realtà, la motivazione
per il nostro canto? Sappiamo chiederci fino a che punto ci lasciamo
realmente coinvolgere dal canto di liberazione? Siamo convinti di essere dalla
parte di coloro per i quali Dio ha già vinto la battaglia? Con l’arrivo di fratelli e
sorelle provenienti dal sud del mondo, anche nelle nostre chiese riformate
entra una vasta e nuova gamma di voci e musiche, di ritmi e danze. Ma non ci è chiesto soltanto di essere incuriositi e coinvolti da suggestivi e nuovi
stimoli di natura culturale. E’ in gioco, nuovamente, anche la nostra identità
teologica. Alle nostre chiese potrebbe essere infatti indirizzata, tuttora,
l’osservazione con cui Gesù rimproverò i suoi contemporanei (Matteo 11, 17):
“Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato!” A.K .

(meditazione pubblicata sul numero 6/2008 di VOCE EVANGELICA, p. 39)