“O Signore, io grido a te da luoghi profondi…”
Questo Salmo ha attraversato i secoli e scavalcato divergenze dottrinarie, perché capace di rappresentare un sentimento che accomuna ogni credente consapevole della propria dimensione di limite al cospetto della grandezza di Dio.
Il grido iniziale del salmista esprime la violenza della sua angoscia esistenziale, che lo fa sentire come sprofondato in un abisso da cui non sa come riemergere. Il suo grido parte dal basso e sale verso l’alto, da dove attende una mano tesa che lo sollevi e gli consenta di sfiorare la calma del divino. Tuttavia si rende conto che l’ostacolo che separa le due dimensioni è rappresentato dalla realtà del peccato che non merita sconti, per cui si può solo sperare che Dio lo cancelli nella sua benevolenza e resti fedele alla sua promessa di salvezza. L’unica speranza è dunque nell’atto gratuito del Signore, il cui amore scende dall’alto e attraversa orizzontalmente la dimensione del tempo; perché l’amore è senza confini.
Su questa misericordia confida l’orante e la certezza dell’accoglimento della preghiera suscita in lui un grande “timore”, cioè meraviglia e stupore, perché testimonia la grandezza dell’Altissimo. Liberato dal peso del peccato il salmista può finalmente aprirsi al futuro: “Io spero nella tua Parola” (v.5).
Per sottolineare concretamente il senso di questa attesa il poeta ci offre l’immagine delle sentinelle che hanno fatto il turno della notte sulle mura di Gerusalemme e che non vedono l’ora che arrivi l’alba per poter terminare il loro servizio. Possiamo quasi vederle, queste sentinelle, che guardano con ansia il cielo per accogliere le luci dell’aurora, certe che non saranno deluse.
Questo salmo è definito nell’introduzione come “Canto dei pellegrinaggi”, perciò possiamo immaginare i pellegrini che arrivano verso la città santa dopo un lungo cammino e ne scorgono le mura al sorgere del nuovo giorno; sono in attesa di esprimere, nel nuovo Tempio appena ricostruito, il loro grazie al Signore. Nei loro cuori c’è un misto di sorpresa e di fiducia nella realizzazione delle loro attese. E’ la speranza che il Signore giunga con la sua forza liberante. La notte angosciosa della colpa scomparirà e spunterà la luce della pace, “il giorno fatto da Jahweh in cui ci rallegreremo ed esulteremo” (Sal. 118,24).
Il salmista passa senza soluzione di continuità dalla propria esperienza personale a quella dell’intero popolo di Israele, a cui sente di essere totalmente assimilato in quanto erede della promessa. Noi oggi abbiamo invece perso in gran parte il senso di una appartenenza comunitaria e abbiamo del peccato una percezione molto più blanda, con la tendenza ad auto-assolverci. Invece come comunità cristiane siamo richiamate dalla Parola ad una dimensione di responsabilità, in quanto la realtà del peccato è evidente e ne siamo tutti in qualche modo partecipi.
In Cristo è stata aperta per la chiesa tutta una nuova storia di salvezza. Dio in Lui ha annullato la distanza che ostacolava il dialogo fra i due estremi, quello della perfezione e quello del peccato. Con l’alba di Pasqua si è aperta la nuova epoca della salvezza, in cui brilla la “stella del mattino” di cui ci parla il libro dell’Apocalisse (Ap 22,16).
(p.l. Alida Chiavenuto)