Quanto allo zelo, non siate pigri;
siate ferventi nello spirito, servite il Signore; siate allegri nella speranza,
pazienti nella tribolazione,
perseveranti nella preghiera,
provvedendo alle necessità dei santi, esercitando con premura l’ospitalità”Romani 12, 11-13
Una parola emerge alla fine del nostro testo, tratto dalla lettera dell’apostolo Paolo ai Romani: filoxenia, che significa ospitalità. Oggi noi conosciamo meglio, un’altra parola: xenofobia, molto diffusa e ampiamente praticata. Filoxenia è invece una parola “rara” nel vocabolario del Nuovo Testamento, ma la troviamo anche nella lettera agli Ebrei:
“L’amor fraterno rimanga tra di voi. Non dimenticate l’ospitalità; perché alcuni praticandola, senza saperlo, hanno ospitato angeli. Ricordatevi dei carcerati, come se foste in carcere con loro; e di quelli che sono maltrattati, come se anche voi lo foste!” (Ebrei 13, 1-3)
Questo testo ricorda la prassi dell’ospitalità che Abramo offrì ai tre “sconosciuti” alle querce di Mamre, erano degli angeli. La prima lettera di Clemente alla chiesa di Corinto ricorda insieme la fede (in greco: pistis) e l’ospitalità (in greco: filoxenia) di Abramo come le due ragioni per cui Dio gli aveva dato un figlio nella sua vecchiaia, ovvero un futuro inaspettato. L’ospitalità e la pietà di Lot (prima lettera di Clemente, cap. 11) è menzionata pure come la ragione del suo salvataggio dall’inferno che consumerà le città di Sodoma e Gomorra. Oltre a questo, troviamo nell’Antico Testamento la storia sull’ospitalità della prostituta Raab (Giosuè 2). Questa storia viene menzionata non solo nella prima lettera di Clemente ai Corinzi. La sua funzione nella storia della salvezza è ancora ricordata nella genealogia del nostro Salvatore Gesù Cristo (Matteo 1, 5).
Raab, la prostituta, è una vera e propria testimone della fede anche nella lettera di Giacomo: viene ritenuta giusta per il suo impegno a favore del popolo di Dio, popolo scampato dalla schiavitù in Egitto, popolo in ricerca di una situazione economica migliore, popolo che ha attraversato le acque del Mar Rosso, popolo in cammino, popolo migrante in ricerca disperata della sua terra promessa. Gesù, nella sua vita, ha sperimentato di essere rigettato, non accettato. Lo ricordano non solo i Vangeli sinottici, ma anche il prologo del Vangelo di Giovanni che dice: “egli è venuto a casa sua ed i suoi non lo hanno ricevuto” (Giovanni 1). La filoxenia, l’amore per l’altro, lo straniero, lo sconosciuto, quello che noi non conosciamo, quello che è diverso da “noi”, forse è una parola diventata rara nel vocabolario comune, ma è un concetto anche teologico che dobbiamo di nuovo inserire nella nostra riflessione e prassi ecumenica.
“La storia conosce molti periodi in cui lo spazio pubblico si oscura e il mondo diventa così incerto che le persone non chiedono più alla politica se non di prestare la dovuta attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà privata. Li si può chiamare tempi bui.” (HANNAH ARENDT, L’umanità in tempi bui, Amburgo 1959). A questa situazione Hannah Arendt oppose l’affermazione, contenuta nel dramma Nathan il Saggio di Gotthold Ephraim Lessing: “Basta essere un uomo”, insieme alla frase “Sii amico mio”. Infatti, Nathan il Saggio afferma nella Parabola dell’anello: “Dobbiamo essere amici”.
Non dobbiamo solo esserlo, possiamo esserlo. Oggi noi diciamo insieme: “restiamo umani” e “restiamo cristiani”. Possiamo pensare al progetto Welcoming Europe e ai corridoi umanitari promossi dalla comunità di Sant’Egidio, dalla Tavola valdese e dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Ci sono tanti modi per essere praticanti della filoxenia. Se vogliamo essere davvero giusti, umani e cristiani, il concetto e la prassi della filoxenia deve restare in alto nelle nostre agende ecclesiastiche. CERCHIAMO DI ESSERE VERAMENTE GIUSTI E DI FARE DI TUTTO PER ESSERE OSPITALI.