Non avevano ancora capito la Scrittura…

Anche tra i discepoli. Anche coloro che sono venuti come primi testimoni oculari, al sepolcro vuoto, rimangono scettici: Pietro, che addirittura entra nel sepolcro e vede le bende abbandonate e il sudario vuoto e accuratamente piegato, ma non crede. Maria Maddalena, ancora in lacrime per il presunto furto (o trasferimento) del cadavere, confonde il Risorto con il giardiniere. Tommaso, nella serata dello stesso giorno, non avendo visto il Signore vivo in mezzo agli altri discepoli, chiede invece di poter verificare personalmente (scientificamente diremo oggi) che il Vivente presente tra loro sia lo stesso crocifisso: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e se non metto il mio dito nel segno dei chiodi, e se non metto la mia mano nel suo costato, io non crederò.”
Fino alla fine del quarto Vangelo regna quindi l’incredulità. Così si conclude il Vangelo di Giovanni con una specifica esortazione alla fede che non si trova negli altri Vangeli: “Or Gesù fece in presenza dei discepoli molti altri segni miracolosi, che non sono scritti in questo libro; ma questi sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome.”
Il Vangelo di Giovanni è il “Vangelo dei segni”. Si tratta di sette “segni miracolosi” in totale che spaziano dalla trasformazione di acqua in vino alle nozze di Cana alla resurrezione di suo amico Lazzaro a Betania. Ma il segno supremo rimane la sua Resurrezione nel giorno di Pasqua.
“Credere” e “vedere” sono due cose che spesso sembrano opporsi l’uno all’altro; ma qualche volta possono anche coincidere.”Vide e credette”. Così si dice, nel Vangelo di Giovanni, del discepolo ben amato che si era chinato all’ingresso del sepolcro vuoto per guardarci dentro. Egli “vide” che cosa? Egli “credette” che cosa? E perchè “credette” avendo “visto”?
Non si dice spesso nella Bibbia che bisogna credere invece in quel Dio invisibile? Non viene spesso, proprio dai cristiani, la “fede” messa in contrasto assoluto alla “visione”? Non siamo chiamati a sperare contro l’evidenza dei fatti? Eppure, proprio nel Vangelo di Giovanni si trova una connessione segreta, quasi intima potremmo dire, tra il credere e il vedere, e vice versa anche tra il non-vedere e non-credere.
Quale “teoria dei segni” possiamo intravedere nel Vangelo di Giovanni? I “segni”, ovvero le azioni che Gesù compia, sono sempre motivati dall’incredulità della gente in mezzo alla quale Gesù si trova, e che vogliono portare gli increduli alla fede. “E i suoi discepoli credettero in lui”, si dice dopo il compimento del primo miracolo di Gesù a Cana in Galilea – ma qui forse questo viene detto per preparare la scena scandalosa dell’incredulità assoluta dei fratelli di Gesù di cui si dice: “Poiché neppure i suoi fratelli credevano in lui.” (Giovanni 7, 5). E anche interessante osservare, che negli altri Vangeli Gesù rifiuta spesso di compiere dei segni miracolosi per farsi (ri-)conoscere per quello che è veramente, e anche l’aver fede in Gesù come Figlio di Dio non viene messo sempre in relazione al riconoscimento delle sue facoltà di operare cose straordinarie.
Quale funzione hanno quindi i “segni” nel Vangelo di Giovanni?
Il pittore italiano novantenne Giuseppe Zigaina (amico fraterno di Pier Paolo Pasolini) ha scritto nel mese di aprile sulle pagine del Corriere della Sera: “Ci sono in noi infiniti segni che si sono incisi e la memoria opera tra questi scegliendo misteriosamente, forse secondo il senso che ognuno vorrebbe dare alla propria esistenza.” Credo che le parole di questo artista (un saggio anziano come lo era lo scrittore e poeta del Vangelo di Giovanni) ci possano aiutare a capire meglio la “teoria dei segni” nel quarto Vangelo.
In tutti noi, i segni, come i sogni, come le visioni, come le immagini, come i punti vista sono davvero tanti e diversi. E ciascuno di noi ne conserva, appunto, una varietà nella propria memoria. La memoria di ciascuno di noi è diversa da quella dell’altro, dell’altra. Quello che noi conserviamo tra le mille cose è il frutto, il risultato di una nostra ricerca, anche molto personale e intima. Il processo di selezione che ciascuno opera in maniera personale rimane spesso non accessibile agli altri, qualche volta rimane nascosta persino a noi stessi; non sempre siamo consapevoli del “perché” noi scegliamo di conservare certe memorie, altre invece le buttiamo via, le cancelliamo molto facilmente oppure, qualche volta, con una certa fatica.
Forse è vero che ciascuno di noi mantiene un rapporto vivo e positivo solo con quella memoria che ci appare utile per la propria vita, per la sopravvivenza della propria cultura o tradizione.
Così sembra che anche Giovanni abbia scelto soltanto alcune memorie, alcuni segni (sette, appunto), tra le tante cose che ci sarebbero da ricordare, perché attraverso la conservazione (ovvero attraverso la scrittura del suo libro) e la tradizione (l’insegnamento, la catechesi) di queste cose “certe” si potesse avere (e conservare) quello che egli chiama utile per avere “la vita” nel nome di Gesù.
“Fate questo in memoria di me”, diceva Gesù durante la sera in cui egli celebrò per “l’ultima” volta la Cena con i suoi, spezzando il pane e offrendo il calice a chi era presente, creando così per la prima volta quella “Cena del Signore” (o Santa Cena) che tutt’oggi celebriamo. Così anche Gesù ha scelto, tra le tante cose da ricordare, soltanto alcune cose, poche ma “significative”, per lasciare “inciso” nei suoi discepoli il “senso” che ha voluto dare alla sua esistenza: pane e vino.
Questi “segni” – reali e toccabili – di quel senso – spirituale e eterno – che Egli ha voluto dare alla propria seppur breve esistenza sono ancora vivi tra noi, ogni volta che li condividiamo, come fratelli e sorelle, nel suo Nome.
(A. Koehn) “Non avevano ancora capito la Scrittura, secondo la quale egli doveva risuscitare dai morti” (Giovanni 20,9) – Nel giorno della prima Pasqua di Resurrezione regna ancora l’incredulità.